Istruzione professionale femminile tra Ottocento e Novecento

Genere, lavoro e cultura tecnica tra passato e futuro

Istruzione professionale femminile tra Ottocento e Novecento

Cos’è oggi l’istruzione professionale e quali scopi si prefigge? Nessuno probabilmente avrebbe problemi a rispondere a questa domanda.

Proviamo però a porre la domanda ripercorrendo a ritroso qualche decennio. Cos’era l’istruzione professionale tra Otto e Novecento, e quali scopi si prefiggeva? Stavolta la risposta è meno scontata, perché il significato dei termini (e soprattutto del termine “professionale”) è cambiato. Ed è cambiato a maggior ragione se guardiamo all’istruzione femminile. Poche erano infatti le donne che studiavano; ancora meno quelle che continuavano dopo la scuola elementare. Se infatti nelle classi popolari le bambine potevano contribuire al bilancio familiare o svolgere lavori di cura, in quelle medie e medio-alte pochi erano gli impieghi accettabili per una donna. Tra questi, quello di maestra: e non a caso la scuola normale (un corso di tre anni che abilitava all’insegnamento elementare) divenne l’opzione maggioritaria.

Anche le poche scuole professionali femminili sorte tra età liberale e fascismo dovettero adattarsi a questa situazione. Fondate inizialmente per le future operaie specializzate, alla fine dell’Ottocento modificarono il loro curriculo, puntando alla formazione della “buona donna di casa” del ceto medio e della borghesia. Come si legge nell’inchiesta ordinata nel 1892 dal Ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio Pietro Lacava, francese ed economia domestica erano entrate a pieno titolo nei programmi di studio delle scuole professionali femminili, dove grande spazio era peraltro riservato alle attività di ricamo, cucito, sartoria.

Un’impostazione di fondo che venne confermandosi con le riforme di inizio Novecento e con la politica del regime fascista, tesa a individuare nell’economia domestica il volano per la formazione della futura donna italiana. Parsimonia, lotta contro il lusso e nettezza avevano già conquistato un posto tra le virtù femminili in età liberale; ma la loro riproposizione cercava di raggiungere quegli obiettivi di progresso a cui la politica economica del regime non contribuiva – come testimoniavano i dannosi effetti di blocco salariale e della politica deflattiva.

Solo una via si rivelava lavorativamente “spendibile” per le donne: quella degli istituti magistrali, che dal 1923 avevano sostituito le scuole normali. E infatti, mentre dal 1924 al 1936 le studentesse delle scuole professionali aumentarono da 2148 a 17812, quelle delle magistrali passarono dalle 28404 alle 87468.


Bibliografia

  • S. Soldani Il libro e la matassa. Scuole per «lavori donneschi» nell’Italia da costruire, in E. Soldani (a cura di), L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, Bologna 1989.
  • S. Franchini, P. Puzzuoli (a cura di), Fonti per la storia della scuola. Gli istituti femminili di educazione e di istruzione (1861-1910), Roma 2005.
  • C. Martinelli, Fare i lavoratori? Le scuole industriali e artistico-industriali italiane nell’età liberale, Roma 2019.