La condizione delle donne di campagna negli anni Cinquanta e Sessanta

Genere, lavoro e cultura tecnica tra passato e futuro

La condizione delle donne di campagna negli anni Cinquanta e Sessanta

Nella prima metà del Novecento le donne erano una componente essenziale della manodopera agricola. Le famiglie che conducevano i poderi (piccoli proprietari, fittavoli e soprattutto mezzadri) erano molto numerose e organizzate secondo rigide gerarchie fra i sessi e le generazioni. Le donne, nel momento del matrimonio, lasciavano la casa paterna per trasferirsi nella casa del marito, dove erano presenti altri nuclei familiari. L’integrazione nella nuova famiglia non era facile, ma l’educazione sin da bambine era volta a questo passaggio; la donna doveva essere abituata a svolgere le mansioni domestiche: cucinare, fare il bucato, cucire, filare e tessere la canapa, accudire gli animali della corte, il tutto senza mai sottrarre tempo al lavoro dei campi. Un problema centrale era infatti quello della loro qualifica come lavoratrici. Come ben evidenzia l’introduzione nel 1934 del Coefficiente Serpieri, la qualità del lavoro femminile era considerata inferiore (del 50%) rispetto alla controparte maschile e questo comportava una riduzione di salario.

Nell’Italia del Dopoguerra e nel corso del successivo boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, la rivendicazione di maggiori diritti, le diversità insite tra le varie categorie di operatrici agricole (mezzadre, mondine, braccianti, etc.), la parità salariale, rappresentarono temi di forte coinvolgimento sociale. Le donne divennero protagoniste nei sindacati e nelle cooperative, anche grazie al diritto di voto, che ne aveva modificato profondamente lo status giuridico. La cooperazione femminile venne inizialmente organizzata grazie all’impegno di Unione Donne Italiane (UDI), che favorì la ripresa dell’attività della cooperazione di consumo e caldeggiò la nascita di cooperative di lavoro artigianale composte da donne, che potevano quindi non solo provvedere ai bisogni alimentari della famiglia ma anche trovare una occupazione con maggiori garanzie.

Un grande problema era infatti quello della sottoccupazione, che aveva una ricaduta immediata sia sotto il fronte del reddito familiare, sia sotto il profilo previdenziale: il mancato raggiungimento delle 104 giornate lavorative, ad esempio, significava il mancato riconoscimento dei contributi annuali a fini pensionistici.

Si impose così la necessità di ripensare la famiglia contadina, affinché il sistema tradizionale a carattere patriarcale venisse modificato per riconoscere il nuovo ruolo assunto dalla donna anche nella gestione delle attività agricole. L’agricoltura divenne sempre più “femminilizzata” e UDI avanzò una proposta di legge per la “Piena valutazione del lavoro della donna contadina” (1962) affinché le lavoratrici delle campagne ottenessero il riconoscimento del loro lavoro sotto il profilo salariale e gestionale, come ben sottolinea la ricca documentazione dei fondi archivistici di UDI Bologna, del Museo della Civiltà Contadina di Bentivoglio, della Fondazione Ivano Barberini di Bologna e gli articoli della rivista NoiDonne.

Con la modernizzazione delle campagne, la figura femminile rivendicò l’accesso ai processi tecnologici e all’utilizzo di nuovi strumenti come nel caso del trattore, emblema del ruolo maschile nel mondo agricolo. La modernizzazione, quindi, non fu solo meccanizzazione, bensì anche trasformazione dei ruoli femminili e maschili nei processi di trasformazione in corso. Si aprì in tal modo una nuova stagione nelle campagne che porterà, negli anni Settanta, accanto alle rivendicazioni cittadine, a richiedere ruoli esecutivi e qualificati per le donne anche per quanto riguarda le occupazioni agricole.


Fonti e documenti